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A Comment on “Fratelli tutti” 13-14 (Giuseppe Tognon)

 

The Encyclical Fratelli tutti is rich in suggestions. The text works on a “rhizomatic” basis, that corresponds to its inspiring principles, i.e. fraternity and social friendship. The ultimate goal of these principles is extending to all human beings the grace of a bond that projects the light of Salvation on human history. Pope Francis tells us that it’s only by going beyond genos and blood ties that we will be able to open doors to the Christian revolution. Doors will also open up to a form of paternity and maternity that engages all men of good will in the quest for justice and in the safeguard of creation. Blood and cultural ties are just the tools through which individuals and groups contribute to the species survival. Nonetheless, they do not exhaust the human “generating power” and, above all, they can’t be put forward as the bedrock of the Church, a spiritual community that lives inside history, precisely to guide it and also to witness that history itself will be ultimately overpassed.

 

Nevertheless, fraternity can be the new world frontier only if we start from the awareness that humanity is going through some hard times and if we are able to compare present and past. It is clear that every age had their difficulties. But the current period is characterized exactly by the refusal to look at models from the past, as it was always done before, for thousands of years. Our age rejects what a great Catholic historian, Henri-Irenée Marrou, called the “sadness” of the job of the historian, facing all the time human weaknesses and miseries. Globalization has masked identities that close off to defend what they are without understanding how and why they are that way. It makes many peoples captive of dictators and adventurers. It generates some absurd forms of inequality and injustice.

 

Against a naive use of the idea of fraternity, typical of simplistic revolutionary ideologies; and against an unscrupulous, phony use of democracy, the fraternity the Encyclical puts forth is founded on the historical consciousness that, not only religions, but also humanity itself, are at risk. Besides, those who seek fraternity are exactly the people who are not “naturally” siblings and know they are not. So, fraternity is a civil virtue that requires maturity and awareness, especially from those who have the possibility to judge and act without depending on despair. The practice of fraternity is a paramount challenge for the rich ones and the wise ones. A strong historical consciousness of personal and collective experience is the indispensable premise of a staunch practice of fraternity. Historical knowledge of the past teaches us that fraternity is always difficult, all the more so if we want to extend it to humankind. But historical consciousness suggests to us that the past will not influence the future, unless we allow it to last. Past and future are projections of men on time. They exist because they are filled with meanings that men share. Historians document the past and build up historical knowledge, but historical knowledge rises when people head to the future in light of a faith.

 

 

Originally published on Educa. International Catholic Journal of Education. Read here the rest of this article.

Coronavirus: i cattolici sono cittadini (Giuseppe Tognon)

 

Anche il Papa cammina da solo per Roma. Le chiese sono aperte nella capitale, ma si entra uno per uno, nel rispetto della salute pubblica che è anche rispetto del dono della propria salute. E come se il Signore ci chiamasse uno per uno e non in massa.

La Chiesa è come la nostra coscienza: non può entrarvi nessun altro. Hai voglia a gridare, ad agitarti, a fuggire: siamo soli, nati soli e moriremo soli. Oggi queste parole ci fanno paura. Suonano strane, eppure sono parte della grande saggezza cristiana che ha sempre amato le comunità ma che ha sempre professato la singolarità della fede, unica e comunque sempre personale.

Si leggono articoli di uomini di Chiesa o di intellettuali, che hanno fatto del loro parlare della Chiesa e sulla Chiesa la loro professione, che invocano il potere della preghiera contro il virus, richiamano l’indipendenza della Chiesa dal potere dello Stato, argomentano sul fatto che non si può sospendere l’Eucaristia, che la fede chiede che sempre e comunque si impartiscano i sacramenti. Si domandano dove è la Chiesa d’Italia, perché non faccia la Chiesa.

Ma che cosa vuol dire oggi “fare la Chiesa”?

Chiediamocelo. Non c’è nessuna paura ad affermare che oggi, in questa epidemia, comandino la scienza, la tecnologia e la politica. Perché loro possono guarire o trovare soluzioni razionali per tutti o per la maggior parte. Perché hanno alle spalle regole e certezze, perché parlano con l’autorità della Costituzione. Perché a loro, alla scienza e alla politica possiamo chiedere conto di ciò che fanno davanti a tutti. Mai come in queste circostanze il potere della fede e del clero si aggiunge e non può sostituirsi al potere civile. È così e talvolta non è un male. Il futuro del cattolicesimo passerà anche da una chiara presa di coscienza di essere dentro la complessità della vita contemporanea, non a parte.

Quelli che si leggono sono ragionamenti doppiamente strani. Innanzitutto perché non mostrano sufficiente preoccupazione per ciò a cui potrebbero andare incontro il clero, i volontari, le persone più generose nell’attraversare le soglie di case, istituti, ricoveri, carceri, nel dare la comunione. Anche la carità, che è viva e generosa, dovrà adattarsi, dovrà trovare forme nuove. Chi scrive di una Chiesa che è scomparsa non dice che il virus non rispetta l’abito talare. Chi invoca processioni, liturgie, celebrazioni non sottopone il proprio ragionamento ad una semplice domanda: come fare per rispettare ciò che ci è chiesto per il bene comune? Vi sono dettagli pratici che vengono considerati secondari e che invece sono decisivi per salvare una vita.

Vi è poi un secondo motivo più serio da sottoporre a chi invoca decisione autonome della Chiesa:

i credenti sono prima di tutto cittadini responsabili.

Possono davvero permettersi di agire diversamente e magari mettere in pericolo gli altri? Non è forse un segno di grande misericordia se i fedeli rinunciano a qualche cosa di importante per la loro fede, al servizio del bene comune della nazione? Gli edifici religiosi possono aspettare perché la vita deve essere sempre tutelata e perché la fede non si ferma di fronte a chiese chiuse.

Non si sa come finirà la pandemia: si sa che ci saranno migliaia di morti, i più deboli e magari i più cari e i più buoni. Il virus non persegue finalità moralistiche e dunque va combattuto per quello che è: un avversario a cui rispondere con le armi dell’intelligenza, della competenza, del rispetto delle norme. Invece si sente bollire nel profondo di certi ambienti un sentimento premoderno di contrapposizione tra scienza e fede che non ha senso. Il problema è quello della competenza e di una scienza ispirata al valore dell’umanità. Bisogna essere chiari: la conoscenza scientifica e la collaborazione tra competenze diverse sono le vere armi e se lo Stato e i cittadini, in questa emergenza, riscoprono il valore della verità, anche di quelle non assolute, sarà un bene per tutti e un esempio per i ragazzi.

Inoltre, chi ha studiato la storia sa che l’umanità, anche l’Italia, ha patito sventure terribili e che il modo con cui vengono raccontate cambia spesso il loro volto e le rende meno terribili, anche se mai accettabili.

La scrittura, la parola, la comunicazione sono parte importante del problema ma anche della sua soluzione.

Se, ad esempio, si rilegge con attenzione Manzoni si vedrà che egli raccontava la storia della peste non per maledire o terrorizzare ma per mostrare come la stupidità umana poteva fare danni anche nelle tragedie.

Oggi si è chiamati solo a rinunciare a qualche cosa, che ci verrà restituito in abbondanza domani: è un sacrifico che anche i cattolici devono fare con dignità e intelligenza.

Ritrovarsi oggi in un Paese chiuso, disciplinato, resistente, affidato a governanti con tanti limiti ma certamente almeno in questo caso operosi, è una consolazione. E se il linguaggio ufficiale della Conferenza episcopale, nei suoi documenti e nelle sue avvertenze, è preciso, umile, rispettoso dei decreti, attento alle nuove regole generali, è un bene: significa che i suoi vertici stanno lavorando fianco a fianco con chi governa e che rappresentano la Chiesa italiana nelle sedi politiche che oggi devono decidere della vita di tutti.

Anche i preti e le suore sono cittadini italiani e condividono con i loro fedeli la medesima condizione. Inventeremo nuove forme di assistenza e di pietà, ma prima di tutto saremo uniti di fronte alla nostra coscienza, la nostra prima chiesa. E a chi mastica di teologia, basta ricordare di andare a leggere le pagine di grandi uomini di fede e di Chiesa dei secoli scorsi, addirittura del Seicento: c’era la peste in Europa, ma c’era anche chi si chiedeva che senso avesse la cosiddetta “frequente comunione”. Non erano atei, ed anzi pagavano duramente la loro indipendenza spirituale dai poteri dei sovrani: erano soltanto uomini che avevano una così alta idea del Signore che non si sentivano degni di accoglierlo troppo spesso, per abitudine.

 

originally published here

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