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Contemporary Humanism

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Mentore e Telemaco (Benedetta Papasogli)

Prolusione Papasogli

 

Il 16 novembre 2022, Benedetta Papasogli, accademica dei Lincei, ha inaugurato le attività 2022-2023 del dottorato di ricerca “Contemporary Humanism” con una prolusione dottorale dal titolo “Mèntore e Telèmaco fra attualità e immaginario”.

A partire dalla figura di Telèmaco, il mitologico figlio di Ulisse, la professoressa Benedetta Papasogli ha proposto riflessioni e immagini per pensare la figura del ‘mèntore’, così importante anche nel lavoro di studio e di ricerca.

 

Per vedere il video della lezione cliccare sull’immagine .

Chiara Pesaresi – Riflessioni sulla vulnerabilità

 

La lezione si è tenuta il 16 febbraio 2022 nel contesto del dottorato internazionale “Contemporary Humanism”. Attraverso un percorso storico e teorico, la prof. Chiara Pesaresi, responsabile della cattedra “Vulnerabilités” dell’Université Catholique de Lyon (Francia), è intervenuta sul tema della vulnerabilità, nozione all’intersezione tra il pubblico e il privato. Per vedere il video della lezione, cliccare qui.

 

 

Intergenerational Justice and the Pandemic

A webinar on the pandemic and its challenges to intergenerational justice took place on 4 December.

Stefano Biancu, Caterina Fiorilli, Fabio Macioce, Ferdinando Menga, Laura Palazzani, Matteo Rizzolli, Vincenzo Schirripa, and all the doctoral students discussed this this challenging topic from an interdisciplinary point of view.

 

The program.

The poster.

The video.

The Pandemic – an Intellectual Challenge

 

At least at our latitudes, the Covid-19 pandemic represented an absolute and radical novelty. Not even the most elderly among us, who have witnessed immense tragedies such as war, have ever experienced anything like this. In a short period of time everything changed under the threat of a terrible and invisible enemy: lifestyles, educational systems, the labor market, public policies, and international relations. Nothing seems to be the same as before: a new normal, still characterized by many uncertainties, has imposed itself on a global level. The whole world has been touched by it. In this sense, the pandemic represents a testing ground for intellectuals, who have posited novel interpretations of a radically new phenomenon based on pre-existing paradigms which have not always proven adequate. The round table – resulting from the collaboration between the University of Notre Dame Rome Global Gateway and the international PhD program “Contemporary Humanism” at LUMSA University – aims at drawing an early assessment of those intellectual attempts. In the awareness that the pandemic represents, in all respects, a challenge also for thought.

 

Time: Fri Sep 11, 2020, 3:00 pm – 5:00 pm

Location: Webinar and In-Person Event – Notre Dame University Rome Global Gateway

 

PANELISTS:

Vittorio G. Hosle – University of Notre Dame

Ferdinando Menga – Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli

Francesco Valerio Tommasi – La Sapienza Università di Roma

MODERATOR:

Stefano Biancu – LUMSA Università di Roma – Doctoral Program in Contemporary Humanism

 

REGISTRATION REQUIRED

Le potenze dell’anima (Sebastian Schwibach)

 

Lo scorso febbraio, poco prima che scoppiasse la pandemia, usciva per l’editore Marsilio di Venezia la nuova edizione di Le potenze dell’anima. Vie alla riforma interiore. Dal disincanto al risveglio, saggio di Elémire Zolla pubblicato per la prima volta nel 1968.

 

La nuova edizione, curata dalla moglie e orientalista Grazia Marchianò nell’ambito dell’Opera omnia, consente al lettore di attingere ad un testo che, pur da molti anni fuori commercio, mantiene intatto il suo interesse per la contemporanea riflessione filosofico-religiosa. A prima vista non si direbbe certo un saggio di attualità, ma scorrendo le pagine ci si accorge che i problemi trattati dall’autore sono, proprio per il fatto di essere inattuali, di estremo interesse per il presente.

 

La prima parte si concentra sulla struttura della soggettività, analizzata da Zolla nelle sue parti costituenti, ovvero il corpo, la ragione, l’anima e lo spirito. Se l’essere umano medio si trova imprigionato tra le maglie della triangolazione corpo-ragione-anima, ovvero materialismo-razionalismo-sentimentalismo, è possibile individuare nello spirito o intelletto la possibilità di una liberazione dalle catene e di un’apertura ad una dimensione dell’umano extrasoggettiva ovvero impersonale. La seconda parte analizza tale possibilità passando in rassegna i modi in cui l’essere umano è stato suddiviso nelle varie culture. L’autore individua cioè le diverse modalità in cui nel corso della storia si è declinato il tentativo di riforma interiore, che trova il suo culmine nella vita intellettuale, ovvero in quella esperienza di trascendimento delle opposizioni binarie e di raggiungimento dell’Unità.

 

Chi era dunque Zolla e perché l’edizione dell’Opera omnia risulta di estremo interesse tanto nell’ambito accademico quanto per il lettore appassionato di filosofia e storia delle religioni?

 

Elémire Zolla (Torino 1926-Montepulciano 2002) è stato un intellettuale di spicco del secondo Novecento italiano. Oltre all’opera saggistica e all’impegno in iniziative culturali quali le attività presso l’Istituto Accademico di Roma o l’Istituto Ticinese di Alti Studi, si è dedicato a portare la cultura fuori dallo stretto circolo del mondo accademico attraverso la collaborazione con riviste e giornali quali ad esempio il “Corriere della Sera” o “Il Sole 24 ore”. L’interesse per la filosofia critica proposta dalla Scuola di Francoforte e l’esigenza di trovare una via di fuga dalla crisi della moderna società industriale lo hanno portato ad avventurarsi nello studio della mistica, con un movimento che da Occidente ha sempre più portato verso Oriente.

 

Ebbene, proprio l’intreccio tra critica della modernità e tentativo di trovare una via di uscita da tale impasse è uno dei punti di forza del pensiero zolliano, che al rigore metodologico affianca una inesausta passione per la verità. Mentre fioriscono gli studi contro il mondo della tecnica o a suo favore, mentre l’ambientalismo viene di volta in volta osteggiato o applaudito dalla società, mentre si cerca di individuare dispositivi economici atti a mitigare la dilagante crisi sociale, ambientale, finanziaria, Zolla dal recente passato indica una strada diversa, una via in interiore homine, una possibilità di riforma dell’interiorità prima ancora che della società. Solo a patto di non essere più automi e di seguire il motto delfico “conosci te stesso” fin nelle più desolate contrade della propria anima, solo a condizione di scendere nell’Ade della nostra interiorità per emergerne ricchi di esperienza e conoscenza, sarà possibile individuare i nodi che impediscono di vivere una vita degna di essere vissuta, una vita libera tanto dalle coazioni sociali quanto da quelle personali.

 

Questa è la strada che nella sua opera di poligrafo Zolla ci indica, una strada che continua ad arrivarci come un sussurro nel caos metropolitano.

 

Per ulteriori approfondimenti su Zolla clicca qui.

 

Sebastian Schwibach è dottorando in “Contemporary Humanism” (curriculum “Philosophy and Religion”).

 

L’etica che verrà (Stefano Biancu)

Che cosa possiamo conoscere, che cosa dobbiamo fare, che cosa possiamo sperare sono le tre domande che, fin dai tempi di Kant, riconosciamo come essenziali per ogni tentativo umano di pensare l’esistenza e il reale: tre domande rispetto alle quali l’esperienza della pandemia ci ha sottratto ogni facile risposta.

 

 

  1. Ciò che è in nostro controllo e ciò che non lo è

 

Molte volte, durante la pandemia, la situazione ci è apparsa fuori controllo. Proprio così potrebbe essere tradotta la domanda kantiana intorno a ciò che possiamo conoscere: che cosa è in nostro controllo e che cosa non lo è? Ciò che conosci lo domini, ciò che non conosci ti domina.

Il virus ci ha imposto di fare il lutto della illusione di poter avere tutto sotto controllo. Ma ci ha anche messo davanti agli occhi l’esigenza di fare tutto ciò che di buono è in nostro potere. Il virus – in altri termini – ci ha con forza ricondotti alla nostra condizione di esseri vulnerabili e responsabili.

Siamo vulnerabili: qualcosa che non controlliamo può, in ogni momento, ferirci e finanche annientarci. Non c’è assicurazione sulla vita che tenga. D’altra parte, il tentativo vano di immunizzarci da ogni rischio produce un danno maggiore del beneficio atteso. Se per salvaguardare la vita eviti ogni rischio, finisci per annientare quella vita che vorresti proteggere e preservare.

Una vulnerabilità accettata è anche ciò che ci permette di accedere alle esperienze più grandi della nostra umanità. Investire energie in un progetto che – nonostante tutto – potrebbe fallire, esprimere liberamente ciò di cui si è convinti anche se magari non sarà accettato e dovremo pagare per questo, dichiarare il proprio amore a una persona che forse non lo ricambierà, scegliere di condividere la vita con una persona che forse un giorno ci ferirà, confidarsi con un amico che potrebbe non comprenderci o che magari ci tradirà, essere generosi con qualcuno che forse se ne approfitterà: sono tutte esperienze di una vulnerabilità accettata che ci espone al rischio della ferita e del fallimento, ma che anche costituisce l’unica porta di accesso per la nostra umanità, rendendoci vivi. Alla fine della nostra esistenza, sapremo di aver vissuto nella misura in cui avremo accettato la nostra vulnerabilità: le occasioni perse saranno altrettanti sacrifici sull’altare della pretesa di metterci al riparo dal rischio della ferita e del fallimento.

Se il fatto di non poter controllare tutto ci rende vulnerabili, il fatto di poter controllare qualcosa ci rende responsabili, di fronte a noi stessi e agli altri. Non siamo onnipotenti e tuttavia, per la parte che ci compete, siamo responsabili.

La scelta di mettere in quarantena interi Paesi del mondo, con gravi rischi per l’economia mondiale, è stata una scelta di responsabilità a favore di tutti, e in particolare dei più vulnerabili. Nel prossimo futuro altrettanta responsabilità dovremo esercitarla verso coloro che la crisi economica avrà reso vulnerabili.

Da qui l’etica dovrà ripartire: dall’accettare che non tutto è in nostro controllo e che la pretesa di assicurarci da ogni rischio uccide la vita; ma anche dall’accettare la responsabilità di fare tutto ciò che di buono è in nostro potere fare: per il bene di tutti e in particolare dei più vulnerabili.

 

 

  1. Ciò che dobbiamo fare

 

Li abbiamo chiamati eroi: medici, infermieri e personale sanitario che, nei giorni bui della pandemia, hanno messo a rischio le loro vite per salvare altre vite umane. Proporzionalmente, rischi simili li hanno assunti molti altri lavoratori. Niente di tutto questo era previsto nei loro contratti di lavoro eppure nessuno di questi eroi ha mai dichiarato – e presumibilmente neppure pensato – di aver fatto più del proprio dovere.

Ciò che abbiamo vissuto ci imporrà di cambiare radicalmente la nostra comprensione del dovere. Dovremo riconoscere che il dovere è più ampio di ciò che è esigibile rispetto a una norma o ai diritti di un terzo. Finora abbiamo considerato la solidarietà, la fraternità, l’amore come attitudini supererogatorie: buone, ma non strettamente dovute. L’esperienza della pandemia ci ha dimostrato che, accanto al minimo necessario di ciò che è esigibile (ciò che qualcuno può pretendere da me), esiste anche un massimo che è altrettanto necessario: nessuno – singolo o istituzione – potrà esigerlo da me, eppure so che è in qualche modo dovuto. Lo devo fare.

Nessuno può esigere da me amore, ma se non amo – e non agisco di conseguenza – non rispondo adeguatamente all’appello che dall’altro mi giunge. E neppure vivo. Non è soltanto per i credenti che l’amore è un comandamento: è per vivere da umani. E da qui, da una comprensione più ampia del dovere, dovrà ripartire l’etica che verrà.

 

 

  1. Ciò che possiamo sperare

 

Andrà tutto bene, ci siamo ripetuti come un mantra. Ma abbiamo finito per crederci sempre di meno e abbiamo iniziato a ripetercelo con sempre minore convinzione. Una colonna di camion militari che portano via le bare dei caduti si è portata via anche le nostre troppo facili illusioni: alla fine non tutto sarà andato bene, perlomeno non per tutti.

Eppure l’esperienza del virus, che ha lasciato dietro di sé una immensa montagna di macerie umane, ci ha dimostrato che – nonostante tutto – possiamo sperare, e che dunque dobbiamo farlo. A patto di non intendere quel “tutto andrà bene” come un “non ci accadrà nulla di male”. Sperare non significa illudersi di non essere vulnerabili, di essere immuni dal male e dal dolore. Piuttosto significa sperare che tutto quell’immenso dolore avrà un senso: che ciò che di male accade, non accada invano. Un senso, forse non immediatamente evidente, ci deve essere. E a noi spetta di agire perché ci sia.

Di questa speranza, che non rimuove illusoriamente la vulnerabilità ma la accetta, siamo tutti responsabili. Da noi dipenderà in buona parte se tutto questo avrà avuto un senso: se da queste macerie sapremo ricostruire un mondo umano diverso e migliore. All’insegna di un amore che sa di essere un massimo, ma un massimo necessario.

 

Per approfondire clicca qui.

Coronavirus: i cattolici sono cittadini (Giuseppe Tognon)

 

Anche il Papa cammina da solo per Roma. Le chiese sono aperte nella capitale, ma si entra uno per uno, nel rispetto della salute pubblica che è anche rispetto del dono della propria salute. E come se il Signore ci chiamasse uno per uno e non in massa.

La Chiesa è come la nostra coscienza: non può entrarvi nessun altro. Hai voglia a gridare, ad agitarti, a fuggire: siamo soli, nati soli e moriremo soli. Oggi queste parole ci fanno paura. Suonano strane, eppure sono parte della grande saggezza cristiana che ha sempre amato le comunità ma che ha sempre professato la singolarità della fede, unica e comunque sempre personale.

Si leggono articoli di uomini di Chiesa o di intellettuali, che hanno fatto del loro parlare della Chiesa e sulla Chiesa la loro professione, che invocano il potere della preghiera contro il virus, richiamano l’indipendenza della Chiesa dal potere dello Stato, argomentano sul fatto che non si può sospendere l’Eucaristia, che la fede chiede che sempre e comunque si impartiscano i sacramenti. Si domandano dove è la Chiesa d’Italia, perché non faccia la Chiesa.

Ma che cosa vuol dire oggi “fare la Chiesa”?

Chiediamocelo. Non c’è nessuna paura ad affermare che oggi, in questa epidemia, comandino la scienza, la tecnologia e la politica. Perché loro possono guarire o trovare soluzioni razionali per tutti o per la maggior parte. Perché hanno alle spalle regole e certezze, perché parlano con l’autorità della Costituzione. Perché a loro, alla scienza e alla politica possiamo chiedere conto di ciò che fanno davanti a tutti. Mai come in queste circostanze il potere della fede e del clero si aggiunge e non può sostituirsi al potere civile. È così e talvolta non è un male. Il futuro del cattolicesimo passerà anche da una chiara presa di coscienza di essere dentro la complessità della vita contemporanea, non a parte.

Quelli che si leggono sono ragionamenti doppiamente strani. Innanzitutto perché non mostrano sufficiente preoccupazione per ciò a cui potrebbero andare incontro il clero, i volontari, le persone più generose nell’attraversare le soglie di case, istituti, ricoveri, carceri, nel dare la comunione. Anche la carità, che è viva e generosa, dovrà adattarsi, dovrà trovare forme nuove. Chi scrive di una Chiesa che è scomparsa non dice che il virus non rispetta l’abito talare. Chi invoca processioni, liturgie, celebrazioni non sottopone il proprio ragionamento ad una semplice domanda: come fare per rispettare ciò che ci è chiesto per il bene comune? Vi sono dettagli pratici che vengono considerati secondari e che invece sono decisivi per salvare una vita.

Vi è poi un secondo motivo più serio da sottoporre a chi invoca decisione autonome della Chiesa:

i credenti sono prima di tutto cittadini responsabili.

Possono davvero permettersi di agire diversamente e magari mettere in pericolo gli altri? Non è forse un segno di grande misericordia se i fedeli rinunciano a qualche cosa di importante per la loro fede, al servizio del bene comune della nazione? Gli edifici religiosi possono aspettare perché la vita deve essere sempre tutelata e perché la fede non si ferma di fronte a chiese chiuse.

Non si sa come finirà la pandemia: si sa che ci saranno migliaia di morti, i più deboli e magari i più cari e i più buoni. Il virus non persegue finalità moralistiche e dunque va combattuto per quello che è: un avversario a cui rispondere con le armi dell’intelligenza, della competenza, del rispetto delle norme. Invece si sente bollire nel profondo di certi ambienti un sentimento premoderno di contrapposizione tra scienza e fede che non ha senso. Il problema è quello della competenza e di una scienza ispirata al valore dell’umanità. Bisogna essere chiari: la conoscenza scientifica e la collaborazione tra competenze diverse sono le vere armi e se lo Stato e i cittadini, in questa emergenza, riscoprono il valore della verità, anche di quelle non assolute, sarà un bene per tutti e un esempio per i ragazzi.

Inoltre, chi ha studiato la storia sa che l’umanità, anche l’Italia, ha patito sventure terribili e che il modo con cui vengono raccontate cambia spesso il loro volto e le rende meno terribili, anche se mai accettabili.

La scrittura, la parola, la comunicazione sono parte importante del problema ma anche della sua soluzione.

Se, ad esempio, si rilegge con attenzione Manzoni si vedrà che egli raccontava la storia della peste non per maledire o terrorizzare ma per mostrare come la stupidità umana poteva fare danni anche nelle tragedie.

Oggi si è chiamati solo a rinunciare a qualche cosa, che ci verrà restituito in abbondanza domani: è un sacrifico che anche i cattolici devono fare con dignità e intelligenza.

Ritrovarsi oggi in un Paese chiuso, disciplinato, resistente, affidato a governanti con tanti limiti ma certamente almeno in questo caso operosi, è una consolazione. E se il linguaggio ufficiale della Conferenza episcopale, nei suoi documenti e nelle sue avvertenze, è preciso, umile, rispettoso dei decreti, attento alle nuove regole generali, è un bene: significa che i suoi vertici stanno lavorando fianco a fianco con chi governa e che rappresentano la Chiesa italiana nelle sedi politiche che oggi devono decidere della vita di tutti.

Anche i preti e le suore sono cittadini italiani e condividono con i loro fedeli la medesima condizione. Inventeremo nuove forme di assistenza e di pietà, ma prima di tutto saremo uniti di fronte alla nostra coscienza, la nostra prima chiesa. E a chi mastica di teologia, basta ricordare di andare a leggere le pagine di grandi uomini di fede e di Chiesa dei secoli scorsi, addirittura del Seicento: c’era la peste in Europa, ma c’era anche chi si chiedeva che senso avesse la cosiddetta “frequente comunione”. Non erano atei, ed anzi pagavano duramente la loro indipendenza spirituale dai poteri dei sovrani: erano soltanto uomini che avevano una così alta idea del Signore che non si sentivano degni di accoglierlo troppo spesso, per abitudine.

 

originally published here

Covid-19 – Controllo e Responsabilità (Stefano Biancu)

Quando il Piccolo principe dice che “l’essenziale è invisibile agli occhi” non sta certo pensando a un virus. Eppure un virus invisibile agli occhi ci sta oggi richiamando con prepotenza all’essenziale, privandoci di tante cose che, perlomeno alle nostre latitudini, ci eravamo abituati a dare per scontate: la sicurezza, la salute, i rapporti sociali, la libertà di movimento e finanche quella di culto.
Ma, più di tutto, il controllo sulle nostre esistenze: il virus ci impone di fare il lutto della illusione di avere tutto sotto controllo.

Al contempo, il virus ci impone di riconoscere ciò che invece è in nostro controllo – ciò che possiamo fare – e di agire di conseguenza. Dopo settimane di annunci sguaiati e scomposti, nella comunicazione pubblica sta finalmente prevalendo un messaggio razionale: la minaccia che il virus porta con sé non riguarda tanto l’esistenza personale della maggior parte di noi, ma la tenuta del sistema sanitario. Rispetto a tale minaccia, occorre agire tutti responsabilmente in modo da limitare il più possibile un contagio che metterebbe in crisi le strutture sanitarie e a rischio l’esistenza di coloro che sono più deboli per età o per altre patologie.

Il virus ci impone dunque di imparare a distinguere tra ciò che è in nostro controllo e ciò che non lo è: non tutto è in nostro controllo né mai lo sarà, ma – per quanto è in nostro controllo – occorre agire tutti responsabilmente, pensando soprattutto ai più deboli. Il virus ci impone insomma di diventare adulti, elaborando il lutto di un sogno infantile di onnipotenza e facendoci carico dell’esistenza di chi è più esposto e indifeso. (Per inciso: questo vale a maggior ragione per quelle voci del mondo cattolico che si sono levate contro il presunto abuso di uno Stato che chiede la chiusura delle chiese in nome della difesa della salute pubblica: costoro continuano a non capire le priorità tra l’uomo e il sabato e a non comprendere dove sta il corpo di Cristo, finendo per fare idolatria).

Finita l’emergenza, che ci richiede di collaborare senza stonature e senza sciacallaggi, si potranno e si dovranno valutare le diverse responsabilità nella gestione dell’epidemia, soprattutto per far sì che la lezione non sia stata vana e che in futuro ci si possa trovare maggiormente preparati davanti a emergenze simili: a livello di gestione sanitaria, di comunicazione pubblica, di misure economiche di sostegno.

Ma solo a una condizione la dura lezione del coronavirus non sarà stata vana: se ciascuno di noi avrà imparato che non tutto è in suo controllo, ma che quello che può fare, lo deve fare: per il bene di tutti e in particolare dei più fragili e indifesi.

 

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