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L’etica che verrà (Stefano Biancu)

Che cosa possiamo conoscere, che cosa dobbiamo fare, che cosa possiamo sperare sono le tre domande che, fin dai tempi di Kant, riconosciamo come essenziali per ogni tentativo umano di pensare l’esistenza e il reale: tre domande rispetto alle quali l’esperienza della pandemia ci ha sottratto ogni facile risposta.

 

 

  1. Ciò che è in nostro controllo e ciò che non lo è

 

Molte volte, durante la pandemia, la situazione ci è apparsa fuori controllo. Proprio così potrebbe essere tradotta la domanda kantiana intorno a ciò che possiamo conoscere: che cosa è in nostro controllo e che cosa non lo è? Ciò che conosci lo domini, ciò che non conosci ti domina.

Il virus ci ha imposto di fare il lutto della illusione di poter avere tutto sotto controllo. Ma ci ha anche messo davanti agli occhi l’esigenza di fare tutto ciò che di buono è in nostro potere. Il virus – in altri termini – ci ha con forza ricondotti alla nostra condizione di esseri vulnerabili e responsabili.

Siamo vulnerabili: qualcosa che non controlliamo può, in ogni momento, ferirci e finanche annientarci. Non c’è assicurazione sulla vita che tenga. D’altra parte, il tentativo vano di immunizzarci da ogni rischio produce un danno maggiore del beneficio atteso. Se per salvaguardare la vita eviti ogni rischio, finisci per annientare quella vita che vorresti proteggere e preservare.

Una vulnerabilità accettata è anche ciò che ci permette di accedere alle esperienze più grandi della nostra umanità. Investire energie in un progetto che – nonostante tutto – potrebbe fallire, esprimere liberamente ciò di cui si è convinti anche se magari non sarà accettato e dovremo pagare per questo, dichiarare il proprio amore a una persona che forse non lo ricambierà, scegliere di condividere la vita con una persona che forse un giorno ci ferirà, confidarsi con un amico che potrebbe non comprenderci o che magari ci tradirà, essere generosi con qualcuno che forse se ne approfitterà: sono tutte esperienze di una vulnerabilità accettata che ci espone al rischio della ferita e del fallimento, ma che anche costituisce l’unica porta di accesso per la nostra umanità, rendendoci vivi. Alla fine della nostra esistenza, sapremo di aver vissuto nella misura in cui avremo accettato la nostra vulnerabilità: le occasioni perse saranno altrettanti sacrifici sull’altare della pretesa di metterci al riparo dal rischio della ferita e del fallimento.

Se il fatto di non poter controllare tutto ci rende vulnerabili, il fatto di poter controllare qualcosa ci rende responsabili, di fronte a noi stessi e agli altri. Non siamo onnipotenti e tuttavia, per la parte che ci compete, siamo responsabili.

La scelta di mettere in quarantena interi Paesi del mondo, con gravi rischi per l’economia mondiale, è stata una scelta di responsabilità a favore di tutti, e in particolare dei più vulnerabili. Nel prossimo futuro altrettanta responsabilità dovremo esercitarla verso coloro che la crisi economica avrà reso vulnerabili.

Da qui l’etica dovrà ripartire: dall’accettare che non tutto è in nostro controllo e che la pretesa di assicurarci da ogni rischio uccide la vita; ma anche dall’accettare la responsabilità di fare tutto ciò che di buono è in nostro potere fare: per il bene di tutti e in particolare dei più vulnerabili.

 

 

  1. Ciò che dobbiamo fare

 

Li abbiamo chiamati eroi: medici, infermieri e personale sanitario che, nei giorni bui della pandemia, hanno messo a rischio le loro vite per salvare altre vite umane. Proporzionalmente, rischi simili li hanno assunti molti altri lavoratori. Niente di tutto questo era previsto nei loro contratti di lavoro eppure nessuno di questi eroi ha mai dichiarato – e presumibilmente neppure pensato – di aver fatto più del proprio dovere.

Ciò che abbiamo vissuto ci imporrà di cambiare radicalmente la nostra comprensione del dovere. Dovremo riconoscere che il dovere è più ampio di ciò che è esigibile rispetto a una norma o ai diritti di un terzo. Finora abbiamo considerato la solidarietà, la fraternità, l’amore come attitudini supererogatorie: buone, ma non strettamente dovute. L’esperienza della pandemia ci ha dimostrato che, accanto al minimo necessario di ciò che è esigibile (ciò che qualcuno può pretendere da me), esiste anche un massimo che è altrettanto necessario: nessuno – singolo o istituzione – potrà esigerlo da me, eppure so che è in qualche modo dovuto. Lo devo fare.

Nessuno può esigere da me amore, ma se non amo – e non agisco di conseguenza – non rispondo adeguatamente all’appello che dall’altro mi giunge. E neppure vivo. Non è soltanto per i credenti che l’amore è un comandamento: è per vivere da umani. E da qui, da una comprensione più ampia del dovere, dovrà ripartire l’etica che verrà.

 

 

  1. Ciò che possiamo sperare

 

Andrà tutto bene, ci siamo ripetuti come un mantra. Ma abbiamo finito per crederci sempre di meno e abbiamo iniziato a ripetercelo con sempre minore convinzione. Una colonna di camion militari che portano via le bare dei caduti si è portata via anche le nostre troppo facili illusioni: alla fine non tutto sarà andato bene, perlomeno non per tutti.

Eppure l’esperienza del virus, che ha lasciato dietro di sé una immensa montagna di macerie umane, ci ha dimostrato che – nonostante tutto – possiamo sperare, e che dunque dobbiamo farlo. A patto di non intendere quel “tutto andrà bene” come un “non ci accadrà nulla di male”. Sperare non significa illudersi di non essere vulnerabili, di essere immuni dal male e dal dolore. Piuttosto significa sperare che tutto quell’immenso dolore avrà un senso: che ciò che di male accade, non accada invano. Un senso, forse non immediatamente evidente, ci deve essere. E a noi spetta di agire perché ci sia.

Di questa speranza, che non rimuove illusoriamente la vulnerabilità ma la accetta, siamo tutti responsabili. Da noi dipenderà in buona parte se tutto questo avrà avuto un senso: se da queste macerie sapremo ricostruire un mondo umano diverso e migliore. All’insegna di un amore che sa di essere un massimo, ma un massimo necessario.

 

Per approfondire clicca qui.

Una Repubblica senza maschera e guanti (Giuseppe Tognon)

 

Il 2 giugno 1946, con il referendum tra Monarchia e Repubblica e con l’elezione della Assemblea costituente – votarono anche le donne – è nata la Repubblica italiana, che ci ha portato la democrazia e restituito le libertà. La Repubblica è una istituzione ed ogni istituzione ha in sé qualche cosa di immateriale che non può essere compreso senza guardare alla storia. Le istituzioni sono principalmente creazioni dello spirito umano.

 

La domanda da porsi oggi è se il Covid-19 ha colpito solo noi o anche la Repubblica, se un virus naturale può far del male a qualche cosa che non ha un corpo materiale. La risposta dipende da noi: i cittadini sono i corpi di una Repubblica che però non può che averne uno solo e unito, sebbene collettivo. Si aprono allora interrogativi che vanno oltre la salute e che ci mettono di fronte ad un’alternativa: sopravvivere e basta o rilanciare prendendo in mano il nostro futuro, così da ridare alla Repubblica un compito. La nostra Repubblica non può difendersi con una mascherina e con i guanti. Ha bisogno che qualcuno ci creda.

 

Il confronto con il 1946 è d’obbligo. Quello fu un anno durissimo ma pieno di speranze e soprattutto di idee politiche. Dopo il referendum, Umberto II aveva cercato di prendere tempo, ma De Gasperi, Presidente del Consiglio, lo mise di fronte alle proprie responsabilità e il 13 giugno il re finalmente partì in esilio. Quella sera, De Gasperi lesse alla radio un messaggio di particolare intensità: «Vorrei dire ai partiti: non imprechiamo, non accaniamoci tra vinti e vincitori. Uno solo è l’artefice del proprio destino: il popolo italiano che, se meriterà la benedizione di Dio, creerà nella Costituente una Repubblica di tutti, una Repubblica che si difenda da sé, ma non perseguiti; una democrazia equilibrata nei suoi poteri; fondata sul lavoro ma giusta verso tutte le classi sociali; riformatrice ma non sopraffattrice, e soprattutto rispettosa della libertà della persona, dei comuni, delle regioni. Un immenso lavoro ricostruttivo abbiamo innanzi a noi; la salita è faticosa, diamoci la mano, uomini di buona volontà, comunque sia stato il vostro e il nostro voto».

 

Dopo la Seconda guerra mondiale la ricostruzione non fu una passeggiata, ma una cosa epica, nel bene e nel male. C’era l’idea che imparare a governarsi democraticamente fosse la cosa più intelligente da fare. Oggi la scena è diversa, ma le sfide ambientali, educative e produttive sono altrettanto epiche. Le emergenze, in politica, sono anche un’occasione. Ormai non è più possibile rammendare una stoffa civile usurata da troppe approssimazioni. Procedere alla giornata facendo finta di non vedere che il tempo delle scelte sta arrivando è come assistere ad una eutanasia repubblicana. Tutti i provvedimenti di emergenza dovrebbero essere pensati alla luce di alcune idee di fondo: ad esempio la riqualificazione del lavoro femminile, una radicale trasformazione della formazione tecnica e professionale, una riconversione dell’ambiente naturale, culturale e digitale. Le istituzioni democratiche devono assicurare il futuro a chi verrà, non consumarlo tutto nel presente di chi c’è già. La loro forza è nella capacità dei cittadini di trasformare la sofferenza in progresso, è nella voglia di imparare. Maggioranza e opposizione sembrano invece non credere più al loro ruolo: si cercano e si respingono come pugili in difficoltà. Il governo dispensa debito pubblico e scarica sui cittadini il peso delle scelte, anche sanitarie.

 

La Repubblica del 1946 è ancora lì, per fortuna, ma pare guardarci come se fossimo degli estranei. Sta a noi caricarla sulle nostre spalle come Enea fece con il vecchio padre Anchise.

 

L’ADIGE, 1 giugno 2020

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