La scuola dopo il Covid (Giuseppe Tognon)

 

Si è chiuso l’anno scolastico più strano del mondo. Anche la scuola si è arresa al virus ed è stata tenuta in vita artificialmente dalle reti digitali, ma non sempre e non dovunque: in molte parti è andata in letargo in famiglia, luogo accogliente o in molti casi devastante.

 

Fra due mesi si aprirà un nuovo anno scolastico senza essere riusciti a far tesoro dell’occasione che passa per iniziare una rivoluzione educativa invocata da decenni. Avremo la scuola del metro di distanza, della sanatoria per qualche decina di migliaia di precari, di qualche migliaia di tablet. Sull’istruzione si sono riempite pagine di giornali senza un’idea originale, ripetendo solo che servono più investimenti e più insegnanti – è vero – ma senza dire che in tutto l’Occidente la crisi dei sistemi scolastici è grave per profonde ragioni sociali e culturali. Chi pensa che con un paio di miliardi in più si possa cambiare il futuro della nostra scuola non sa a che cosa andremo incontro.

 

L’Italia può compensare le sue difficoltà finanziarie e burocratiche solo se mette al centro della scuola pubblica un progetto pedagogico innovativo che stimoli i ragazzi a guadagnar tempo e a sfruttare meglio le loro energie psichiche, se occorre anche riducendo gli anni di scuola e il peso dei programmi. Bisogna saper scegliere: si imparano davvero solo poche cose, quelle che piacciono e quelle che si capisce come usare. L’Italia può farcela se riesce a mettere in pista giovani preparati a 20 anni, non a 30. I genitori che credono che il successo sia il frutto di una lunga e ordinata carriera scolastica non vedono che oggi la scuola assorbe troppo tempo ma coltiva solo in minima parte l’intelligenza dei giovani. In molti casi addormenta invece di svegliare. Illude invece di spronare, anche in università, dove si pretende sempre meno. Il sistema scolastico che conosciamo è stata un’invenzione geniale degli Stati moderni per organizzare la trasformazione industriale delle società contadine. Aveva il suo fine nel lavoro di massa ma ormai, passata l’epoca della fabbrica o del pubblico impiego, lo Stato non è in grado di trasformare il sistema formativo con la rapidità con cui Amazon consegna le merci. La vita per fortuna non si riduce alla logistica, ma il lockdown ha mostrato che, se siamo un popolo di ignoranti, come dicono le indagini internazionali, non possiamo più permetterci una scuola che è culturalmente vecchia, che mortifica le libertà degli insegnanti e dei giovani e che è organizzata come un secolo fa.

 

Il futuro delle nostre scuole sarà turbolento come quello del Paese, che dovrà anche ripensare il ruolo di centinaia di migliaia di donne insegnanti in uno Stato che con una mano paga loro uno stipendio ma con l’altra le mortifica, perché non sa promuovere la natalità, non stimola l’innovazione genitoriale, la convivenza intergenerazionale, il lavoro intellettuale.

 

Occorre riflettere anche sui contenuti: la nostra scuola , soprattutto la scuola media, si scontra con modelli emotivi manipolati da potenti industrie della comunicazione e si basa ancora su un’idea museale e manualistica di apprendimento, un «sistema-catalogo». Oggi, poi, l’ingiustizia sociale ferisce fin da piccoli perché è diventata più subdola e porta in aula codici di comportamento che sono tribali. Così la nostra società è diventata più razzista pur essendo più libertaria.

 

Per difendere la democrazia in crisi è allora necessario insegnare di più la logica, che è una competenza trasversale; è importante mostrare agli studenti come sia giusto competere senza farsi del male; è indispensabile che gli insegnanti non siano schierati per classi di concorso sulla base di carriere di carta ma siano valutati sul campo per quello che veramente sanno fare. Non sappiamo più che cosa sia un curriculo di studio perché ragioniamo ancora per materie e ignoriamo la storia culturale che ha prodotto nei secoli un albero delle conoscenze molto vecchio. Dante è una gloria nazionale, ma oggi merita di essere studiato per il valore universale della sua poesia più che per patriottismo. Le matematiche vanno insegnate prestissimo come un gioco per cogliere il valore universale del pensiero simbolico e il piacere dell’astrazione e non perché servono più ragionieri o geometri. La scrittura manuale va difesa perché è il termometro di una buona psicomotricità. Il diritto dovrebbe essere per tutti perché siamo prigionieri di una rete di regole inutili. Lo studio delle lingue straniere non è necessario per fare il cameriere a Londra o per entrare in una scuola di eccellenza, ma perché rafforza la padronanza della lingua materna e fa crescere lo spirito umanitario.

 

Bisogna insomma dare spazio all’ innovazione pedagogica perché il nostro modello di insegnamento è, in gran parte, un modello fossile e non basta invocare la Montessori, di cui celebriamo quest’anno i 150 anni della nascita.

 

“L’Adige”, 8 luglio 2020