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Contemporary Humanism

International PhD Program & Research Network

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The Pandemic – an Intellectual Challenge

 

At least at our latitudes, the Covid-19 pandemic represented an absolute and radical novelty. Not even the most elderly among us, who have witnessed immense tragedies such as war, have ever experienced anything like this. In a short period of time everything changed under the threat of a terrible and invisible enemy: lifestyles, educational systems, the labor market, public policies, and international relations. Nothing seems to be the same as before: a new normal, still characterized by many uncertainties, has imposed itself on a global level. The whole world has been touched by it. In this sense, the pandemic represents a testing ground for intellectuals, who have posited novel interpretations of a radically new phenomenon based on pre-existing paradigms which have not always proven adequate. The round table – resulting from the collaboration between the University of Notre Dame Rome Global Gateway and the international PhD program “Contemporary Humanism” at LUMSA University – aims at drawing an early assessment of those intellectual attempts. In the awareness that the pandemic represents, in all respects, a challenge also for thought.

 

Time: Fri Sep 11, 2020, 3:00 pm – 5:00 pm

Location: Webinar and In-Person Event – Notre Dame University Rome Global Gateway

 

PANELISTS:

Vittorio G. Hosle – University of Notre Dame

Ferdinando Menga – Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli

Francesco Valerio Tommasi – La Sapienza Università di Roma

MODERATOR:

Stefano Biancu – LUMSA Università di Roma – Doctoral Program in Contemporary Humanism

 

REGISTRATION REQUIRED

Le potenze dell’anima (Sebastian Schwibach)

 

Lo scorso febbraio, poco prima che scoppiasse la pandemia, usciva per l’editore Marsilio di Venezia la nuova edizione di Le potenze dell’anima. Vie alla riforma interiore. Dal disincanto al risveglio, saggio di Elémire Zolla pubblicato per la prima volta nel 1968.

 

La nuova edizione, curata dalla moglie e orientalista Grazia Marchianò nell’ambito dell’Opera omnia, consente al lettore di attingere ad un testo che, pur da molti anni fuori commercio, mantiene intatto il suo interesse per la contemporanea riflessione filosofico-religiosa. A prima vista non si direbbe certo un saggio di attualità, ma scorrendo le pagine ci si accorge che i problemi trattati dall’autore sono, proprio per il fatto di essere inattuali, di estremo interesse per il presente.

 

La prima parte si concentra sulla struttura della soggettività, analizzata da Zolla nelle sue parti costituenti, ovvero il corpo, la ragione, l’anima e lo spirito. Se l’essere umano medio si trova imprigionato tra le maglie della triangolazione corpo-ragione-anima, ovvero materialismo-razionalismo-sentimentalismo, è possibile individuare nello spirito o intelletto la possibilità di una liberazione dalle catene e di un’apertura ad una dimensione dell’umano extrasoggettiva ovvero impersonale. La seconda parte analizza tale possibilità passando in rassegna i modi in cui l’essere umano è stato suddiviso nelle varie culture. L’autore individua cioè le diverse modalità in cui nel corso della storia si è declinato il tentativo di riforma interiore, che trova il suo culmine nella vita intellettuale, ovvero in quella esperienza di trascendimento delle opposizioni binarie e di raggiungimento dell’Unità.

 

Chi era dunque Zolla e perché l’edizione dell’Opera omnia risulta di estremo interesse tanto nell’ambito accademico quanto per il lettore appassionato di filosofia e storia delle religioni?

 

Elémire Zolla (Torino 1926-Montepulciano 2002) è stato un intellettuale di spicco del secondo Novecento italiano. Oltre all’opera saggistica e all’impegno in iniziative culturali quali le attività presso l’Istituto Accademico di Roma o l’Istituto Ticinese di Alti Studi, si è dedicato a portare la cultura fuori dallo stretto circolo del mondo accademico attraverso la collaborazione con riviste e giornali quali ad esempio il “Corriere della Sera” o “Il Sole 24 ore”. L’interesse per la filosofia critica proposta dalla Scuola di Francoforte e l’esigenza di trovare una via di fuga dalla crisi della moderna società industriale lo hanno portato ad avventurarsi nello studio della mistica, con un movimento che da Occidente ha sempre più portato verso Oriente.

 

Ebbene, proprio l’intreccio tra critica della modernità e tentativo di trovare una via di uscita da tale impasse è uno dei punti di forza del pensiero zolliano, che al rigore metodologico affianca una inesausta passione per la verità. Mentre fioriscono gli studi contro il mondo della tecnica o a suo favore, mentre l’ambientalismo viene di volta in volta osteggiato o applaudito dalla società, mentre si cerca di individuare dispositivi economici atti a mitigare la dilagante crisi sociale, ambientale, finanziaria, Zolla dal recente passato indica una strada diversa, una via in interiore homine, una possibilità di riforma dell’interiorità prima ancora che della società. Solo a patto di non essere più automi e di seguire il motto delfico “conosci te stesso” fin nelle più desolate contrade della propria anima, solo a condizione di scendere nell’Ade della nostra interiorità per emergerne ricchi di esperienza e conoscenza, sarà possibile individuare i nodi che impediscono di vivere una vita degna di essere vissuta, una vita libera tanto dalle coazioni sociali quanto da quelle personali.

 

Questa è la strada che nella sua opera di poligrafo Zolla ci indica, una strada che continua ad arrivarci come un sussurro nel caos metropolitano.

 

Per ulteriori approfondimenti su Zolla clicca qui.

 

Sebastian Schwibach è dottorando in “Contemporary Humanism” (curriculum “Philosophy and Religion”).

 

 

Covid e religioni (Benedetta Papasogli)

… è sopravvenuta una sorta di normalità vacillante. In una pallida maniera che fa un po’ pensare al “Lazare parmi nous” (Jean Cayrol) della letteratura post-concentrazionaria, dietro i dispositivi di protezione individuale che rendono simbolicamente fioca la voce, tra banchi di chiesa sbarrati dai segnali del distanziamento, la pratica religiosa ha ripreso il suo corso.  Può sembrare il momento di voltare pagina e di archiviare come puramente circostanziali le tensioni e le reazioni, anche scomposte, dei mesi trascorsi. La tesi che qui proponiamo è invece che sia il momento di affinare lo sguardo…

Leggi qui il testo completo.

 

La scuola dopo il Covid (Giuseppe Tognon)

 

Si è chiuso l’anno scolastico più strano del mondo. Anche la scuola si è arresa al virus ed è stata tenuta in vita artificialmente dalle reti digitali, ma non sempre e non dovunque: in molte parti è andata in letargo in famiglia, luogo accogliente o in molti casi devastante.

 

Fra due mesi si aprirà un nuovo anno scolastico senza essere riusciti a far tesoro dell’occasione che passa per iniziare una rivoluzione educativa invocata da decenni. Avremo la scuola del metro di distanza, della sanatoria per qualche decina di migliaia di precari, di qualche migliaia di tablet. Sull’istruzione si sono riempite pagine di giornali senza un’idea originale, ripetendo solo che servono più investimenti e più insegnanti – è vero – ma senza dire che in tutto l’Occidente la crisi dei sistemi scolastici è grave per profonde ragioni sociali e culturali. Chi pensa che con un paio di miliardi in più si possa cambiare il futuro della nostra scuola non sa a che cosa andremo incontro.

 

L’Italia può compensare le sue difficoltà finanziarie e burocratiche solo se mette al centro della scuola pubblica un progetto pedagogico innovativo che stimoli i ragazzi a guadagnar tempo e a sfruttare meglio le loro energie psichiche, se occorre anche riducendo gli anni di scuola e il peso dei programmi. Bisogna saper scegliere: si imparano davvero solo poche cose, quelle che piacciono e quelle che si capisce come usare. L’Italia può farcela se riesce a mettere in pista giovani preparati a 20 anni, non a 30. I genitori che credono che il successo sia il frutto di una lunga e ordinata carriera scolastica non vedono che oggi la scuola assorbe troppo tempo ma coltiva solo in minima parte l’intelligenza dei giovani. In molti casi addormenta invece di svegliare. Illude invece di spronare, anche in università, dove si pretende sempre meno. Il sistema scolastico che conosciamo è stata un’invenzione geniale degli Stati moderni per organizzare la trasformazione industriale delle società contadine. Aveva il suo fine nel lavoro di massa ma ormai, passata l’epoca della fabbrica o del pubblico impiego, lo Stato non è in grado di trasformare il sistema formativo con la rapidità con cui Amazon consegna le merci. La vita per fortuna non si riduce alla logistica, ma il lockdown ha mostrato che, se siamo un popolo di ignoranti, come dicono le indagini internazionali, non possiamo più permetterci una scuola che è culturalmente vecchia, che mortifica le libertà degli insegnanti e dei giovani e che è organizzata come un secolo fa.

 

Il futuro delle nostre scuole sarà turbolento come quello del Paese, che dovrà anche ripensare il ruolo di centinaia di migliaia di donne insegnanti in uno Stato che con una mano paga loro uno stipendio ma con l’altra le mortifica, perché non sa promuovere la natalità, non stimola l’innovazione genitoriale, la convivenza intergenerazionale, il lavoro intellettuale.

 

Occorre riflettere anche sui contenuti: la nostra scuola , soprattutto la scuola media, si scontra con modelli emotivi manipolati da potenti industrie della comunicazione e si basa ancora su un’idea museale e manualistica di apprendimento, un «sistema-catalogo». Oggi, poi, l’ingiustizia sociale ferisce fin da piccoli perché è diventata più subdola e porta in aula codici di comportamento che sono tribali. Così la nostra società è diventata più razzista pur essendo più libertaria.

 

Per difendere la democrazia in crisi è allora necessario insegnare di più la logica, che è una competenza trasversale; è importante mostrare agli studenti come sia giusto competere senza farsi del male; è indispensabile che gli insegnanti non siano schierati per classi di concorso sulla base di carriere di carta ma siano valutati sul campo per quello che veramente sanno fare. Non sappiamo più che cosa sia un curriculo di studio perché ragioniamo ancora per materie e ignoriamo la storia culturale che ha prodotto nei secoli un albero delle conoscenze molto vecchio. Dante è una gloria nazionale, ma oggi merita di essere studiato per il valore universale della sua poesia più che per patriottismo. Le matematiche vanno insegnate prestissimo come un gioco per cogliere il valore universale del pensiero simbolico e il piacere dell’astrazione e non perché servono più ragionieri o geometri. La scrittura manuale va difesa perché è il termometro di una buona psicomotricità. Il diritto dovrebbe essere per tutti perché siamo prigionieri di una rete di regole inutili. Lo studio delle lingue straniere non è necessario per fare il cameriere a Londra o per entrare in una scuola di eccellenza, ma perché rafforza la padronanza della lingua materna e fa crescere lo spirito umanitario.

 

Bisogna insomma dare spazio all’ innovazione pedagogica perché il nostro modello di insegnamento è, in gran parte, un modello fossile e non basta invocare la Montessori, di cui celebriamo quest’anno i 150 anni della nascita.

 

“L’Adige”, 8 luglio 2020

Un comunitarismo universalistico? (Alberto Anelli)

 

Un «comunitarismo universalistico», ovvero sottoporre ad un principio universalistico le appartenenze comunitarie particolari, ritrovando così ad un livello più elevato e universale la stessa esperienza di appartenenza comunitaria, come appartenenza ad una comunità più grande, l’umanità. Questa è l’idea centrale di un libro di Teresa Bartolomei, manifesto di una proposta che si potrebbe a buona ragione considerare come una vera e propria «teoria critica di ispirazione teologica» (Radix, Matrix. Community belonging and the ecclesial form of universalistic communitarism, Lisboa 2018).

 

Il primo obiettivo di Radix, Matrix (impedire la dissoluzione delle particolarità assiologiche) porta ad un confronto diretto con la teoria critica di seconda generazione: quindi, in modo particolare la pragmatica universale di Jürgen Habermas, ma anche la pragmatica trascendentale di Karl Otto Apel che costituisce un referente privilegiato per lo stesso Habermas.

Mentre di Apel – di cui è stata allieva e dalla cui scuola proviene – Teresa Bartolomei riprende e valorizza il ruolo dell’autocontraddizione performativa, proveniente in origine dalla semiotica e dalla filosofia del linguaggio, a Habermas Radix, Matrix contesta di operare una radicale separazione tra valori delle appartenenze particolari e principi universali o universalizzabili.

 

Il secondo obiettivo di Radix, Matrix (universalizzabilità del principio, sua pretesa universale) controbilancia il primo e si muove nella direzione di una relativizzazione delle identità particolari, con la preoccupazione appunto di evitare la loro assolutizzazione, la quale impedirebbe il riconoscimento di un principio universale. Questo secondo obiettivo porta Radix, Matrix ad un confronto diretto con la teoria dei sistemi sociali di Niklas Luhmann.

 

L’elemento di maggiore originalità della tesi di Radix, Matrix, consiste nel determinare il principio di universalizzazione non deducendolo da un modello astratto, puramente razionale, ma a partire invece dalle dinamiche storiche e reali delle appartenenze comunitarie storicamente date.

 

Radix, Matrix s’ispira ad un modello storico particolare di appartenenza comunitaria: quello dell’ecclesialità cristiana; a partire dalla forma storica del protocristianesimo, argomenta a favore di un modello di «ecclesiologia filosofica» in grado di porsi come nuova teoria critica: la funzione di ogni appartenenza comunitaria è da ricondurre al «principio di inclusività». Tale principio si articola appunto in due requisiti da tenere insieme: l’uguaglianza e libertà dei membri, l’apertura di principio ad ogni essere umano.

 

Questa ispirazione teologica di Radix, Matrix colloca la sua proposta, inevitabilmente, anche nell’ambito del dibattito teologico sulla società e la politica, nell’ambito cioè di quella che tradizionalmente si definirebbe come la «teologia politica», ma che sarebbe forse oggi più opportuno definire come l’ambito delle «teorie critiche di ispirazione cristiana».

Il dibattito tra queste teorie di ispirazione teologica appare oggi dominato da due progetti teorici, peraltro tra loro antitetici, l’uno appartenente al mondo anglofono, l’altro al mondo francofono.

 

Il primo grande progetto teorico che si distingue nel panorama attuale della teologia è il programma che fa capo a John Milbank e al gruppo di teologi a lui vicini – C. Cunningham, C. Pickstock, G. Ward – all’interno del Centre of Philosophy and Theology dell’università di Nottingham. La teoria sociale, connessa al programma della Radical Orthodoxy, si pone come bersaglio critico il liberalismo economico-politico, il neoliberismo, il capitalismo avanzato dell’odierna stagione della tecnica. Il secondo grande progetto che intende rivisitare la tradizionale questione della teologia politica è senza dubbio quello nato nel contesto della proposta di teologia fondamentale e sistematica di Christoph Theobald, del Centre Sèvres di Parigi, alla cui base sta una teoria soteriologica e cristologica centrata sulla testimonianza biblica: la «santità ospitale» di Gesù.

 

Rispetto alla contro-etica (Milbank) e alla grammatica generativa (Theobald), Radix, Matrix opera un vero e proprio “déplacement”, spostando il livello del discorso da un piano etico ad una dimensione politico-giuridica, più concreta, fortemente attenta ai processi geopolitici attuali di implosione sovranista, e alle questioni del diritto (non solo internazionale).

 

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L’etica che verrà (Stefano Biancu)

Che cosa possiamo conoscere, che cosa dobbiamo fare, che cosa possiamo sperare sono le tre domande che, fin dai tempi di Kant, riconosciamo come essenziali per ogni tentativo umano di pensare l’esistenza e il reale: tre domande rispetto alle quali l’esperienza della pandemia ci ha sottratto ogni facile risposta.

 

 

  1. Ciò che è in nostro controllo e ciò che non lo è

 

Molte volte, durante la pandemia, la situazione ci è apparsa fuori controllo. Proprio così potrebbe essere tradotta la domanda kantiana intorno a ciò che possiamo conoscere: che cosa è in nostro controllo e che cosa non lo è? Ciò che conosci lo domini, ciò che non conosci ti domina.

Il virus ci ha imposto di fare il lutto della illusione di poter avere tutto sotto controllo. Ma ci ha anche messo davanti agli occhi l’esigenza di fare tutto ciò che di buono è in nostro potere. Il virus – in altri termini – ci ha con forza ricondotti alla nostra condizione di esseri vulnerabili e responsabili.

Siamo vulnerabili: qualcosa che non controlliamo può, in ogni momento, ferirci e finanche annientarci. Non c’è assicurazione sulla vita che tenga. D’altra parte, il tentativo vano di immunizzarci da ogni rischio produce un danno maggiore del beneficio atteso. Se per salvaguardare la vita eviti ogni rischio, finisci per annientare quella vita che vorresti proteggere e preservare.

Una vulnerabilità accettata è anche ciò che ci permette di accedere alle esperienze più grandi della nostra umanità. Investire energie in un progetto che – nonostante tutto – potrebbe fallire, esprimere liberamente ciò di cui si è convinti anche se magari non sarà accettato e dovremo pagare per questo, dichiarare il proprio amore a una persona che forse non lo ricambierà, scegliere di condividere la vita con una persona che forse un giorno ci ferirà, confidarsi con un amico che potrebbe non comprenderci o che magari ci tradirà, essere generosi con qualcuno che forse se ne approfitterà: sono tutte esperienze di una vulnerabilità accettata che ci espone al rischio della ferita e del fallimento, ma che anche costituisce l’unica porta di accesso per la nostra umanità, rendendoci vivi. Alla fine della nostra esistenza, sapremo di aver vissuto nella misura in cui avremo accettato la nostra vulnerabilità: le occasioni perse saranno altrettanti sacrifici sull’altare della pretesa di metterci al riparo dal rischio della ferita e del fallimento.

Se il fatto di non poter controllare tutto ci rende vulnerabili, il fatto di poter controllare qualcosa ci rende responsabili, di fronte a noi stessi e agli altri. Non siamo onnipotenti e tuttavia, per la parte che ci compete, siamo responsabili.

La scelta di mettere in quarantena interi Paesi del mondo, con gravi rischi per l’economia mondiale, è stata una scelta di responsabilità a favore di tutti, e in particolare dei più vulnerabili. Nel prossimo futuro altrettanta responsabilità dovremo esercitarla verso coloro che la crisi economica avrà reso vulnerabili.

Da qui l’etica dovrà ripartire: dall’accettare che non tutto è in nostro controllo e che la pretesa di assicurarci da ogni rischio uccide la vita; ma anche dall’accettare la responsabilità di fare tutto ciò che di buono è in nostro potere fare: per il bene di tutti e in particolare dei più vulnerabili.

 

 

  1. Ciò che dobbiamo fare

 

Li abbiamo chiamati eroi: medici, infermieri e personale sanitario che, nei giorni bui della pandemia, hanno messo a rischio le loro vite per salvare altre vite umane. Proporzionalmente, rischi simili li hanno assunti molti altri lavoratori. Niente di tutto questo era previsto nei loro contratti di lavoro eppure nessuno di questi eroi ha mai dichiarato – e presumibilmente neppure pensato – di aver fatto più del proprio dovere.

Ciò che abbiamo vissuto ci imporrà di cambiare radicalmente la nostra comprensione del dovere. Dovremo riconoscere che il dovere è più ampio di ciò che è esigibile rispetto a una norma o ai diritti di un terzo. Finora abbiamo considerato la solidarietà, la fraternità, l’amore come attitudini supererogatorie: buone, ma non strettamente dovute. L’esperienza della pandemia ci ha dimostrato che, accanto al minimo necessario di ciò che è esigibile (ciò che qualcuno può pretendere da me), esiste anche un massimo che è altrettanto necessario: nessuno – singolo o istituzione – potrà esigerlo da me, eppure so che è in qualche modo dovuto. Lo devo fare.

Nessuno può esigere da me amore, ma se non amo – e non agisco di conseguenza – non rispondo adeguatamente all’appello che dall’altro mi giunge. E neppure vivo. Non è soltanto per i credenti che l’amore è un comandamento: è per vivere da umani. E da qui, da una comprensione più ampia del dovere, dovrà ripartire l’etica che verrà.

 

 

  1. Ciò che possiamo sperare

 

Andrà tutto bene, ci siamo ripetuti come un mantra. Ma abbiamo finito per crederci sempre di meno e abbiamo iniziato a ripetercelo con sempre minore convinzione. Una colonna di camion militari che portano via le bare dei caduti si è portata via anche le nostre troppo facili illusioni: alla fine non tutto sarà andato bene, perlomeno non per tutti.

Eppure l’esperienza del virus, che ha lasciato dietro di sé una immensa montagna di macerie umane, ci ha dimostrato che – nonostante tutto – possiamo sperare, e che dunque dobbiamo farlo. A patto di non intendere quel “tutto andrà bene” come un “non ci accadrà nulla di male”. Sperare non significa illudersi di non essere vulnerabili, di essere immuni dal male e dal dolore. Piuttosto significa sperare che tutto quell’immenso dolore avrà un senso: che ciò che di male accade, non accada invano. Un senso, forse non immediatamente evidente, ci deve essere. E a noi spetta di agire perché ci sia.

Di questa speranza, che non rimuove illusoriamente la vulnerabilità ma la accetta, siamo tutti responsabili. Da noi dipenderà in buona parte se tutto questo avrà avuto un senso: se da queste macerie sapremo ricostruire un mondo umano diverso e migliore. All’insegna di un amore che sa di essere un massimo, ma un massimo necessario.

 

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Una Repubblica senza maschera e guanti (Giuseppe Tognon)

 

Il 2 giugno 1946, con il referendum tra Monarchia e Repubblica e con l’elezione della Assemblea costituente – votarono anche le donne – è nata la Repubblica italiana, che ci ha portato la democrazia e restituito le libertà. La Repubblica è una istituzione ed ogni istituzione ha in sé qualche cosa di immateriale che non può essere compreso senza guardare alla storia. Le istituzioni sono principalmente creazioni dello spirito umano.

 

La domanda da porsi oggi è se il Covid-19 ha colpito solo noi o anche la Repubblica, se un virus naturale può far del male a qualche cosa che non ha un corpo materiale. La risposta dipende da noi: i cittadini sono i corpi di una Repubblica che però non può che averne uno solo e unito, sebbene collettivo. Si aprono allora interrogativi che vanno oltre la salute e che ci mettono di fronte ad un’alternativa: sopravvivere e basta o rilanciare prendendo in mano il nostro futuro, così da ridare alla Repubblica un compito. La nostra Repubblica non può difendersi con una mascherina e con i guanti. Ha bisogno che qualcuno ci creda.

 

Il confronto con il 1946 è d’obbligo. Quello fu un anno durissimo ma pieno di speranze e soprattutto di idee politiche. Dopo il referendum, Umberto II aveva cercato di prendere tempo, ma De Gasperi, Presidente del Consiglio, lo mise di fronte alle proprie responsabilità e il 13 giugno il re finalmente partì in esilio. Quella sera, De Gasperi lesse alla radio un messaggio di particolare intensità: «Vorrei dire ai partiti: non imprechiamo, non accaniamoci tra vinti e vincitori. Uno solo è l’artefice del proprio destino: il popolo italiano che, se meriterà la benedizione di Dio, creerà nella Costituente una Repubblica di tutti, una Repubblica che si difenda da sé, ma non perseguiti; una democrazia equilibrata nei suoi poteri; fondata sul lavoro ma giusta verso tutte le classi sociali; riformatrice ma non sopraffattrice, e soprattutto rispettosa della libertà della persona, dei comuni, delle regioni. Un immenso lavoro ricostruttivo abbiamo innanzi a noi; la salita è faticosa, diamoci la mano, uomini di buona volontà, comunque sia stato il vostro e il nostro voto».

 

Dopo la Seconda guerra mondiale la ricostruzione non fu una passeggiata, ma una cosa epica, nel bene e nel male. C’era l’idea che imparare a governarsi democraticamente fosse la cosa più intelligente da fare. Oggi la scena è diversa, ma le sfide ambientali, educative e produttive sono altrettanto epiche. Le emergenze, in politica, sono anche un’occasione. Ormai non è più possibile rammendare una stoffa civile usurata da troppe approssimazioni. Procedere alla giornata facendo finta di non vedere che il tempo delle scelte sta arrivando è come assistere ad una eutanasia repubblicana. Tutti i provvedimenti di emergenza dovrebbero essere pensati alla luce di alcune idee di fondo: ad esempio la riqualificazione del lavoro femminile, una radicale trasformazione della formazione tecnica e professionale, una riconversione dell’ambiente naturale, culturale e digitale. Le istituzioni democratiche devono assicurare il futuro a chi verrà, non consumarlo tutto nel presente di chi c’è già. La loro forza è nella capacità dei cittadini di trasformare la sofferenza in progresso, è nella voglia di imparare. Maggioranza e opposizione sembrano invece non credere più al loro ruolo: si cercano e si respingono come pugili in difficoltà. Il governo dispensa debito pubblico e scarica sui cittadini il peso delle scelte, anche sanitarie.

 

La Repubblica del 1946 è ancora lì, per fortuna, ma pare guardarci come se fossimo degli estranei. Sta a noi caricarla sulle nostre spalle come Enea fece con il vecchio padre Anchise.

 

L’ADIGE, 1 giugno 2020

Un patto al femminile per il post Covid (Giuseppe Tognon)

 

Molti proclamano che dopo la pandemia il mondo non sarà più lo stesso e che si apre la strada per grandi cambiamenti positivi. La maggioranza di noi credo tema invece che la vita diventerà più dura, che monteranno l’egoismo e la rabbia e che i più deboli lo diventeranno ancora di più. È meglio non sognare ad occhi aperti e concentrarsi sulla vita di tutti i giorni, senza attendere salvatori che non esistono. Nella prefigurazione di un nuovo mondo post Covid non basterà cambiare il lavoro, che spesso non c’è, ma occorrerà lavorare molto sulle reti sociali che veramente contano, in particolare quelle familiari. Che cosa sia successo davvero nei mesi di quarantena all’interno dei nuclei familiari non lo sappiamo ancora, ma è certo che non saranno state sempre rose e fiori. L’Italia non è tutta come il Trentino, con case belle, giardino, orti e natura. E dove i rapporti familiari sono tesi non c’è spazio o verde che tenga. Ma c’è una risorsa su cui puntare, le donne, e non solo perché sono la maggioranza. A qualche femminista parrà improprio che lo scriva un uomo, ma il tema è così importante che non importa chi lo solleva. La parte femminile dell’umanità è oggi la più adatta ad un cambiamento sostanziale nei modelli di vita. Le donne sanno che cosa è il precariato e hanno da secoli praticato il multitasking, cioè la capacità di pensare e realizzare molte cose insieme. Nel corso dei secoli hanno elaborato un’idea della “differenza” che non è legata solo al sesso o alla forza, ma piuttosto alla cura e alla ricucitura dei rapporti. La condizione femminile è diventata anche il modello di riferimento per le minoranze emarginate. La nostra cultura occidentale ha invece costruito un’idea dei santi e degli eroi prevalentemente al maschile. Le donne hanno sempre contato molto nella storia, ma la storia le ha ripagate con la strategia di dividerle. Si dice, ad esempio, che accanto ad un grande uomo c’è sempre una grande donna, ma anche questo riconoscimento è funzionale a dividere le donne segregandole in ruoli importanti ma subalterni.  I miti e la letteratura sono pieni di singole donne esemplari che però nascondono il “collettivo” femminile. Eppure, molte guerre, molte faide familiari, molte lotte per impossessarsi dei corpi, sono terminate anche perché un collettivo di donne ha detto basta e si è rifiutato di seppellire i morti, di alimentare i rancori, di subire violenze. Questa pandemia è dunque l’occasione per dare spazio all’idea che il femminile non è solo un genere, ma una qualità preziosa dell’umano. Non si risolverà la crisi demografica, non si cambierà la famiglia, la scuola, il modo di produrre e di consumare, se le donne non lo vorranno. Ma non basta contare sul femminismo e sulle sacrosante battaglie per i diritti delle donne. Non bastano le quote rosa perché i diritti fondati soltanto sulle norme lasciano spesso il tempo che trovano. Occorre piuttosto una scommessa sul protagonismo femminile come esempio di intelligenza di vita.  Anche nella politica bisognerebbe avere il coraggio di consultare di più le donne e su alcune questioni si potrebbe considerare vincolante l’opinione femminile.  Nella Chiesa, che è una istituzione molto stanca, si dovrebbe puntare sul diaconato femminile con maggior coraggio. Se non stiamo vivendo solo una epidemia, ma una malattia delle relazioni interpersonali, possiamo imparare dalle donne anche a costruire forme migliori di organizzazione sociale. La crisi italiana ci sprona ad aiutarci reciprocamente, a firmare un nuovo patto tra noi, in prima persona, nella vita quotidiana.

 

L’Adige 14 maggio 2020

Covid-19 – Controllo e responsabilità (Stefano Biancu)

Quando il Piccolo principe dice che “l’essenziale è invisibile agli occhi” non sta certo pensando a un virus. Eppure un virus invisibile agli occhi ci sta oggi richiamando con prepotenza all’essenziale, privandoci di tante cose che, perlomeno alle nostre latitudini, ci eravamo abituati a dare per scontate: la sicurezza, la salute, i rapporti sociali, la libertà di movimento e finanche quella di culto.
Ma, più di tutto, il controllo sulle nostre esistenze: il virus ci impone di fare il lutto della illusione di avere tutto sotto controllo.

Al contempo, il virus ci impone di riconoscere ciò che invece è in nostro controllo – ciò che possiamo fare – e di agire di conseguenza. Dopo settimane di annunci sguaiati e scomposti, nella comunicazione pubblica sta finalmente prevalendo un messaggio razionale: la minaccia che il virus porta con sé non riguarda tanto l’esistenza personale della maggior parte di noi, ma la tenuta del sistema sanitario. Rispetto a tale minaccia, occorre agire tutti responsabilmente in modo da limitare il più possibile un contagio che metterebbe in crisi le strutture sanitarie e a rischio l’esistenza di coloro che sono più deboli per età o per altre patologie.

Il virus ci impone dunque di imparare a distinguere tra ciò che è in nostro controllo e ciò che non lo è: non tutto è in nostro controllo né mai lo sarà, ma – per quanto è in nostro controllo – occorre agire tutti responsabilmente, pensando soprattutto ai più deboli. Il virus ci impone insomma di diventare adulti, elaborando il lutto di un sogno infantile di onnipotenza e facendoci carico dell’esistenza di chi è più esposto e indifeso. (Per inciso: questo vale a maggior ragione per quelle voci del mondo cattolico che si sono levate contro il presunto abuso di uno Stato che chiede la chiusura delle chiese in nome della difesa della salute pubblica: costoro continuano a non capire le priorità tra l’uomo e il sabato e a non comprendere dove sta il corpo di Cristo, finendo per fare idolatria).

Finita l’emergenza, che ci richiede di collaborare senza stonature e senza sciacallaggi, si potranno e si dovranno valutare le diverse responsabilità nella gestione dell’epidemia, soprattutto per far sì che la lezione non sia stata vana e che in futuro ci si possa trovare maggiormente preparati davanti a emergenze simili: a livello di gestione sanitaria, di comunicazione pubblica, di misure economiche di sostegno.

Ma solo a una condizione la dura lezione del coronavirus non sarà stata vana: se ciascuno di noi avrà imparato che non tutto è in suo controllo, ma che quello che può fare, lo deve fare: per il bene di tutti e in particolare dei più fragili e indifesi.

 

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Tra Stato e Chiesa in Italia nella pandemia (Giuseppe Tognon)

 

È un peccato che nei giorni scorsi si sia aperta una crepa nel rapporto tra la Chiesa e lo Stato sulla questione delle messe. È un peccato che il presidente Conte non abbia capito che l’obbedienza della Chiesa italiana alle direttive sanitarie del governo è stato un grande segno di responsabilità e di condivisione. E’ un peccato che la Conferenza episcopale abbia dovuto scrivere il duro comunicato uscito domenica scorsa che ha avuto l’effetto di far cambiare posizione al Presidente del Consiglio. D’altra parte, all’interno della Chiesa cattolica molti vescovi e alcuni intellettuali organici avevano issato la bandiera di una Chiesa «sovrana» «esigendo» che fosse lasciata libera di agire nelle questioni del culto. Magari qualcuno potrà pensare che Conte trarrà vantaggio politico dalla riapertura delle Chiese e magari altri diranno che la chiusura era stata imposta da uno dei tanti comitati di esperti di cui si circonda. Alcuni leader penseranno che è stato merito della loro pressione. Questa vicenda ha messo in luce tutta la complessità dei rapporti tra Stato e Chiesa nel nostro paese. Le prerogative della Chiesa risalgono ai Patti lateranensi del 1929 tra la Santa Sede e il governo di Mussolini che ha chiuso la “questione romana” cioè lo scontro tra il papato e il Regno d’Italia. Proprio la sapienza dimostrata dai Padri costituenti nel voler inserire all’interno della Costituzione repubblicana quegli accordi (art. 7) dovrebbe suggerire a tutte le parti rispetto e prudenza. De Gasperi volle l’art. 7 anche per vincolare la Chiesa alla democrazia italiana, mantenendone le prerogative ma vincolandole anche al rispetto delle istituzioni repubblicane. A quel tempo, De Gasperi doveva tener conto di un forte anticlericalismo delle Sinistre ma anche di un forte clericalismo nel mondo cattolico. Oggi, l’ emergenza del virus ha fatto emergere valori forti di condivisione e di fratellanza. E  nessuno, né dentro né fuori la Chiesa, può svilire il significato dell’obbedienza civile dei credenti  dando magari l’impressione che sia stata un cedimento al governo. Il card. Ruini (intervista a La Repubblica del 27 aprile) ha detto: «il Governo prenda atto di aver ecceduto». Il Santo Padre nella omelia del 28 aprile ha detto: “Preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni”. Un richiamo di grande saggezza. Se si ragiona, con linguaggio tutto politico, di scuse pubbliche, di sovranità negate, di conflitti istituzionali, si resta in un copione sbagliato. Perché di quale sovranità ecclesiastica o statuale parliamo oggi? Sono entrambe sovranità indebolite dalla decristianizzazione, dal cattivo esempio delle istituzioni pubbliche, dalle difficoltà di praticare i principi della Costituzione e del Concilio. Tutti, credenti e non credenti, sono prima di tutto cittadini di una medesima comunità. Semmai, la libertà dei credenti si misura sulla capacità, se occorre, di rinunciare a qualche cosa, pur se fondamentale, in nome di un bene da salvaguardare in via prioritaria, come oggi è quello della salute. Anche se i credenti arrivassero ultimi nella riapertura, la loro sarà stata la testimonianza di un servizio. Gli ultimi saranno i primi. Il cuore della fede, ma anche della buona politica, è nella fiducia reciproca, nella pazienza come dono di prudenza, nel rispetto della parola data e nella capacità di scegliere il bene comune.

 

L’ADIGE 1 maggio 2020

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